mercoledì 29 agosto 2012

The bounty killer

Titolo originale: El precio de un hombre. 1966, di Eugenio Martin. Con: Tomas Milian, Richard Wyler, Halina Zalewska, Mario Brega, Enzo Fiermonte, Manuel Zarzo, Hugo Blanco.

Ottimo film dello spagnolo Eugenio Martin, che confeziona uno spaghetto con tutti i crismi, coadiuvato da un eccellente Enzo Barboni alla fotografia.
La pellicola, fra i vari meriti che può vantare, ha anche quello di aver fatto esordire nel genere Tomas Milian (ancora doppiato da Massimo Turci nella versione italiana, mentre si doppia da sé in quella spagnola), nei panni di uno splendido villain messicano (José Gómez), dalle sfumature vagamente psicotiche. 
Pare che fu Milian stesso a richiedere che il personaggio fosse tratteggiato più approfonditamente rispetto al soggetto originale (dove era un bastardo tout court), per poterlo interpretare in una maniera più convincente. Nello specifico, a seguito delle sue istanze, furono introdotti nella sceneggiatura i richiami al dramma occorso a José da bambino, origine di tutto del suo odio per il mondo e della conseguente inusitata ferocia.
Ovviamente, il Milian che troviamo qua è quello delle origini, proveniente dall'Actors Studio (che rivedremo anche l'anno successivo nel capolavoro di Giulio Questi Se sei vivo spara), ancora lontano da personaggi dai toni farseschi e  gigioneschi quali il Cuchillo dei film di Sollima o il Basco di Vamos a matar, compañeros.
Ça va sans dire, Milian ruba completamente la scena a quello che dovrebbe essere il vero protagonista del film (il bounty killer Luke Chilson), un non certo travolgente Richard Wyler, attore inglese dal volto piuttosto anonimo il quale, come se non bastasse, passa buona parte del film legato ad un palo (nella stalla e sulla piazza del paesino che fa da teatro alla vicenda), ammaccato dalle botte prese da José Gomez e dai suoi scagnozzi. Insomma, se Tomas Miliam raccoglie con grande stile (efficace e non puramente emulativo) lo scettro del villain schizzato e sopra le righe inaugurato da Gian Maria Volonté con i suoi Indio e Ramon, non si può certo affermare che Wyler faccia lo stesso con lo straniero senza nome. A dirla tutta, non si avvicina manco alla punta dello stivale di Clint Eastwood.

Da evidenziare il ruolo ritagliato alla protagonista femminile del  film, impersonato dagli occhioni blu di Halina Zalewska. E già il fatto che si possa parlare di "protagonista femminile" in uno spaghetti western è un fatto degno di considerazione. In più Eden (questo il nome della donna nel film), si dà decisamente da fare (organizza fughe, spara, libera prigionieri e, dulcis in fundo, prende ceffoni...), dimostrandosi particolarmente intraprendente, divenendo così elemento centrale della vicenda e per una volta per questioni solo tangenzialmente sentimentali.

Monumentale Mario Brega, in tutti i sensi: quasi un Bud Spencer ante litteram!
Molto bella la colonna sonora di Stelvio Cipriani che, pur partendo un po' zoppicante e molto old style, si risolleva via via nel corso della vicenda, con notevoli picchi qualitativi (dagli echi morriconiani, soprattutto quando tira fuori dal cilindro organi e chitarre elettriche) nei momenti topici del film.



domenica 26 agosto 2012

Django

1966, di Sergio Corbucci. Con: Franco Nero, Loredana Nusciak, Eduardo Fajardo, José Bodalo, Luciano Rossi, Gino Pernice, Simon Arriaga. 

Django è un fumettone straordinario, che ha impresso a fuoco le sorti del western all’italiana quasi quanto Per un pugno di Dollari di Leone, tanti sono i proseliti e gli epigoni che ha generato. E le indebite appropriazioni onomastiche (all’epoca nessuno degli autori si premurava di registrare i nomi dei protagonisti dei film western quali proprietà intellettuali) ed i seguiti apocrifi che ha originato, al punto di divenire un eponimo western. Anche se il nome Django di western ha poco o niente, essendo stato scelto in omaggio al grandissimo chitarrista gitano Django Reinhardt (amato da Corbucci in quel periodo), il quale ha in comune con il personaggio animato da Franco Nero soltanto una caratteristica: sapeva usare magistralmente la mano, anche se gravemente menomata. Uno suonava la chitarra e l'altro sparava, ma poco importa.
Con tutto quel fango (che fa da teatro, per altro, alla nota lutulenta zuffa meretricia), quelle ambientazioni al limite del gotico, quella fotografia livida, quasi cianotica, nonché il colpo di genio del pistolero solitario che, anziché viaggiare a cavallo come i suoi colleghi, se ne va a zonzo a piedi, lurido, trascinandosi con indolenza una bara (con sorpresa), la pellicola irrompe a gamba tesa sul panorama cinematografico, riscuotendo un notevole successo internazionale e diventando presto un film di culto tra gli appassionati del genere.

E poco importa che la trama sia scarna, risicata e non del tutto originale. Non è uno di quei casi in cui conti qualche cosa.
Per l'epoca, ultra-violento (il picco con la celebre scena dell'orecchio, al limite dello splatter, omaggiata da Tarantino nel suo film d'esordio Le iene) e dal body count gargantuesco.
I villains (ammesso poi che ci sia qualcuno non villain nel film) sono cattivissimi e per di più razzisti: ingegnosa la trovata di farli incappucciare a mo' di ku klux klan, però in rosso, colore che in quell'atmosfera plumbea non trasmette la sensazione di un tono sgargiante e vivace, ma ricorda piuttosto il sangue, che scorre a fiumi. La pensata dei cappucci  verrà poi ripresa da Fulci ne I quattro dell'apocalisse, nella scena del massacro iniziale.

Epocale il duello finale al cimitero, con Django che si presenta con le mani maciullate. Evidentemente, Corbucci aveva un debole per gli antieroei fisicamente menomati, tra pistoleri ciechi (Minnesota Clay), muti (Il grande Silenzio) e monchi (Django).

Con Django, inoltre, Corbucci dà corpo all’archetipo del “suo” personaggio, quasi funereo, dal passato oscuro e tormentato e dal futuro tutt’altro che roseo, che ritornerà in molti dei suoi western (e che verrà portato al parossismo con Il grande Silenzio), un po’ la variante gotica e pessimistica dello straniero senza nome di leoniana memoria. Non che Leone avesse, per altro, una visione così entusiastica delle cose, come testimoniano le sue stesse parole: 
Ford era un ottimista. Io sono un pessimista. I personaggi di Ford, quando aprono una finestra scrutano sempre, alla fine, questo orizzonte pieno di speranza; mentre i miei, quando aprono la finestra, hanno sempre paura di ricevere una palla in mezzo agli occhi
È un po’ come se Leone e Corbucci fossero i Beatles e i Rolling Stones dello spaghetti western: uno è un po' più solare e l'altro un po' più tetro, ma restano pur semre espressione dello stesso movimento, in piena contrapposizione con le regole che erano state del western classico degli anni '40 e '50.
Non si può tacere, infine, il fatto che Corbucci con questo film abbia lanciato nel firmamento Franco Nero, il Clint Eastwood italiano, eccelso protagonista di innumerevoli pellicole nel cinema di genere nostrano degli anni ’60 e ’70. Anche se inizialmente gli fu imposto, lui avrebbe preferito Mark Damon, con il quale aveva appena girato Johnny Oro. In realtà, a pacificare il tutto, in seguito ebbe a dire:
Ford aveva John Wayne, Leone aveva Clint Eastwood, io ho Franco Nero. 
E non è certo un caso che Quentin Tarantino lo abbia fortemente voluto per fare un cammeo nel suo nuovo western (a breve in uscita), Django Unchained. A proposito: sul “furto” del nome, sono passati quasi 50 anni, ma nulla sembra cambiato…





martedì 21 agosto 2012

C'era una volta il West

1968, di Sergio Leone. Con: Charles Bronson, Claudia Cardinale, Henry Fonda, Jason Robards, Gabriele Ferzetti, Frank Wolff, Woody Srode, Lionel Stander, Paolo Stoppa, Jack Elam.


Solo alcune sintetiche riflessioni su uno dei capolavori di uno dei più grandi registi di tutti i tempi, in relazione al quale sono state già posate, ed anche in modo molto autorevole, ragguardevoli distese di inchiostro, reale o virtuale che sia.
Questo è il punto: se con la Trilogia del dollaro Sergio Leone si era di fatto svincolato dall'epopea mitica del west, svuotando di ogni valenza epica o leggendaria (e in taluni casi moralistica) la poetica che fu del western classico americano, fosse quello di John Ford, Anthony Mann o Howard Hawks poco importa, con C’era una volta il West in qualche modo il Nostro affronta l’argomento, ribaltando però completamente la visione del pionierismo epico, costruttivo e colmo di speranza (ed in sostanza, patriottistico), tipico del cinema hollywoodiano, mutandola in un pessimistico scorcio sul futuro. 
Il progresso, infatti, è riletto malinconicamente da Leone come fosse il sicario di un’epopea ormai al crepuscolo, anziché quale chiave di volta quasi positivista per il futuro rigoglioso di una grande nazione, come volevano i cliché del western americano classico (diverso sarà il discorso per il western revisionista e crepuscolare degli anni '70 che, paradossalmente, sarà debitore non poco nei confronti di Leone e del western italiano più in generale).
Non è importante, in fin dei conti, chi sarà a perire nel duello finale: comunque vada, quello non è, e non sarà più, un mondo per Armonica e per Frank.

sabato 18 agosto 2012

Johnny Yuma

1966, di Romolo Guerrieri. Con: Mark Damon, Lawrence Dobkin, Rosalba Neri, Luigi Vannucchi, Fidel Gonzales, Leslie Daniels.

Film pressoché sconosciuto al di fuori dell'alveo degli appassionati dello spaghetto, Johnny Yuma è per contro considerato, a ragione   per chi scrive, un gioiellino misconosciuto dagli adepti del genere.
Si tratta di un film violentissimo (alcune riviste americane, come ad esempio Variety, all'epoca dell'uscita lo giudicarono come il più violento western italiano mai girato, come riporta Marco Giusti nel suo Dizionario del western all'italiana), bilanciato solo in parte dalla faccia da belloccio americano un po' acqua e sapone del protagonista Mark Damon (che farà poi uno splendido e teatrale villain l'anno seguente in Requiescant di Carlo Lizzani), il quale ricorda solo a tratti l'eroe classico del western a stelle e strisce, per poi enucleare nel corso della trama molti tratti tipici dell'antieroe cinico del western nostrano (non esita a prendere a cazzotti Samantha, che seppur luciferina, è pur sempre una donna).
Notevole l'antagonista principale, la cattivissima Samantha Felton, impersonata dall'affascinante Rosalba Neri (che nelle fattezze somatiche ricorda un po' Nicoletta Machiavelli, e scusate se è poco!), coadiuvata nella sua perfidia dal fratello Pedro (l'attore teatrale Luigi Vannucchi), con il quale Guerrieri lascia intravedere tra le righe la possibile esistenza di un rapporto incestuoso. Così come azzeccata è la figura del bounty killer gentiluomo L.J. Carradine (l'attore radiofonico americano Lawerence Dobkin, perfetto per la parte).
Gli elementi melodrammatici che Guerrieri metterà sapientemente in risalto l'anno successivo con il bellissimo 10.000 Dollari per un massacro sono già presenti in nuce nella pellicola (si pensi al rapporto amoroso tra Samantha Felton e L.J. Carradine, che tormenta il cacciatore di taglie o al legame che si crea tra Johnny ed il bambino), ma sono sovrastati e messi in secondo piano dalla violenza rappresentata, davvero notevole per l'epoca, che raggiunge il suo culmine nella sfida impari tra Pedro (armato di lancia, a cavallo a mo' di cavaliere medioevale) e Johnny e, soprattutto, nell'efferata uccisione del bambino - che aveva dato asilo a Johnny, nascondendolo nella propria dimora -  a calci e pugni, una scena davvero struggente e disturbante.
Molto bello anche il duello conclusivo, dal body count pantagruelico e l'insolito finale con la scomparsa decisamente sui generis della cattiva...
Sceneggiatura di Fernando Di Leo, che ancora una volta si dimostra uno scrittore di livello superiore in ambito western.
Ottima la colonna sonora della "Morricone in gonnella" dello spaghetti western, la bravissima Nora Orlandi.








martedì 14 agosto 2012

Viva la muerte... tua!

1971, di Duccio Tessari. Con: Franco Nero, Eli Wallcah, Lynn Redgrave, Horst Janson, Eduardo Fajardo, Victor Israel, Marilù Tolo. 

Con Viva la muerte... tua! Duccio Tessari mette in scena quello che idealmente sembrerebbe essere il terzo capitolo della saga in salsa tortilla western di Sergio Corbucci, dopo Il mercenario e Vamos a matar, compañeros. Troppo evidenti sono, infatti, la ripresa dell'impianto della trama (il classico canovaccio in cui il rubagallime messicano di turno diventa un eroe rivoluzionario quasi per caso, a seguito dell'incontro/scontro con lo straniero), del perfido antagonista che sembra uscito da un fumetto (qua, ahimè, non c'è più l'immenso Jack Palance, ma un onesto Horst Janson che se va a in giro con un busto d'acciaio ricalcato sul suo corpo muscoloso) ma, soprattutto, del personaggio interpretato da Franco Nero che, dopo Lo Svedese ed Il Polacco, impersona questa volta Il Russo, il Principe Dmitri Vassilovich Orlowsky.
Analogamente, seppur in maniera meno sfacciata, la pellicola sembra strizzare l'occhio a Giù la testa di Sergio Leone per quanto concerne l'ambientazione temporale (gli anni '10 del '900), l'utilizzo in quantità di dinamite, la presenza della giornalista filo rivoluzionaria irlandese (come il Sean di James Coburn) interpretata da Lynn Redgrave  e la presenza quasi ingombrante di automobili e motociclette, a sancire una volta per tutte che i tempi sono cambiati. Sul finale, fanno addirittura capolino due autoblindi!

A tutto ciò si aggiunga che Duccio Tessari calca ulteriormente la mano sui toni farseschi (che già erano presenti nei tortilla western di Corbucci), a volte financo cialtroneschi - si può quasi dire che porti alle estreme conseguenze il discorso iniziato anni addietro con Una pistola per Ringo, sulla scorta dell'enorme successo de Lo chiamavano Trinità che, come noto, ha imposto una decisa virata in chiave gigionesca  al western italiano, ormai in fase discendente - e picareschi, prestando una notevole cura per le (ottime) scene d'azione e dando uno spiccato rilievo al registro avventuroso.

Nonostante niente di nuovo sia apparso sotto il sole, l'esplosiva coppia Wallach/Nero funziona alla grande, con l'americano che dà libero sfogo a tutta la sa incontenibile verve e l'italiano che prosegue il discorso già iniziato con i due citati film di Corbucci, interpretando la parte dell'avventuriero europeo cinico, brillante e interessato solo al denaro e la regia di Tessari è più che puntuale, con qualche colpo di classe qua e là.
Molto belli i titoli di testa che, utilizzando solo la musica e i fermo immagine, raccontano a mo' di fumetto tutta la rapina iniziale compiuta dal Russo, travestito da pastore protestante durante un matrimonio.
Assolutamente pregevole il commento musicale di Ennio Morricone e Gianni Ferrio, che segue con efficacia i toni da commedia che aleggiano per gran parte del film, proponendo temi orecchiabili, accattivanti e spesso scanzonati.
In definitiva, un prodotto ben confezionato e assolutamente divertente, pur senza essere un capolavoro e pur rifacendosi in maniera più che esplicita ad altri film del filone.


domenica 12 agosto 2012

Texas, addio

1966, di Ferdinando Baldi. Con: Franco Nero, Alberto Dell'Acqua, José Suarez, Luigi Pistilli, Livio Lorenzon, José Guardiola, Elisa Montés.


Texas, addio è uno di quei western italiani della prima ondata di spaghetti post leoniani dall'aria tetra, la cui trama fa il paio con quella di Le Colt cantarono la morte e fu... tempo di massacro di Lucio Fulci, visti i toni da tregenda greca, richiamati dagli echi edipici dei drammi famigliari a vario livello, che man mano si disvelano nel corso della narrazione.
E come nel film di Fulci, del resto, il protagonista indiscusso è un grande Franco Nero, la cui interpretazione è impreziosita dal clamoroso doppiaggio di Enrico Maria Salerno, che le dà un valore aggiunto in termini di coolness non indifferente (il richiamo al Clint Eastwood della Trilogia del Dollaro è pressochè inevitabile oltre che, evidentemente, voluto dalla produzione). Nero - calzando con classe infinita un notevole trench di pelle - interpreta la parte dell'integerrimo sceriffo dalla mano svelta (e dalla battuta pronta: i dialoghi sono davvero brillanti) Burt Sullivan,  mosso per tutta la durata della pellicola dall'implacabile ed inesorabile sete di vendetta nei confronti di Cisco Delgado (José Suarez), l'uomo che tempo addietro ebbe ad uccidere suo padre. Vendetta commista al desiderio di giustizia: il suo obiettivo, infatti, non è tanto quello di eliminare Delgado, quanto quello di riportarlo in Texas per farlo processare. Questi, infatti, si trova in Messico (teatro di quasi tutta la storia), ove ormai risiede da tempo, ricco, potente e spietato, come si conviene ai villains della peggior (miglior) specie.
Piuttosto anonima l'interpretazione di Alberto Dell'Acqua, nei panni del fratello di Burt, Jim Sullivan, per quanto il personaggio che anima sia una figura centrale della vicenda, mentre ottimi sono tutti i comprimari, alcuni dei quali sono i soliti noti, come ad esempio Luigi Pistilli, nei panni dell'avvocato a capo dei ribelli. Su tutti, però, spicca Livio Lorenzon, davvero eccelso nel caratterizzare la figura di Miguel, l'alcalde che si muove nell'alveo della pellicola mostrando molte ombre (la gustosissima scena in cui, sbronzo e ridanciano, fa fucilare dei ladruncoli dando come segnale per l'esecuzione l'estrazione del tappo dalla borraccia da cui si abbevera alcolicamente) ed alcune luci (sul finale, quando viene svelato il suo passato e, mestamente, si defila dando la sua pistola a Burt).
Notevole l'utilizzo dei paesaggi dell'Almeria da parte di Baldi, il quale conduce il film con assoluto mestiere (con una particolare cura per le scene d'azione) e senza sbavature.
Co-sceneggiato da Franco Rossetti (già co-autore di Django insieme a Sergio Corbucci) e regista di El desperado.


mercoledì 8 agosto 2012

La collina degli stivali

1969, di Giuseppe Colizzi. Con: Terence Hill, Bud Spencer, Woody Strode, Lionel Stander, Glauco Onorato, Luciano Rossi, Victor Buono, Eduardo Ciannelli.



Ultimo capitolo della trilogia di Giuseppe Colizzi, La collina degli stivali è un film strano, che viaggia a due velocità. La prima parte del film, infatti, è davvero notevole sotto molti punti di vista: la regia raffinata di Colizzi, l'interpretazione di Terence Hill (al suo massimo in ambito extra "sorrisi & cazzotti"), che dimostra di essere davvero bravo nella parte del pistolero un po' meno infallibile del solito, braccato come una lepre durante una battuta di caccia, e l'ambientazione - insolita e fascinosa - circense (qua i classici nani e ballerine ci sono non solo metaforicamente), che sembra quasi voler essere un omaggio in filigrana a Fellini.

Al giro di boa, per contro, la pellicola imbocca una strada tortuosa. La sceneggiatura si fa via via sempre più macchinosa e il ritmo, di conseguenza, scende, fino a far divenire la trama faticosa da seguire. Anche l'aver messo in secondo piano il personaggio interpretato da Bud Spencer non è del tutto comprensibile, visti i risultati non trascurabili che il gigante partenopeo aveva ottenuto quale co-protagonista accanto a Terence Hill in Dio perdona... io no! e I quattro dell'Ave Maria.
Il finale è pasticciato, non è la degna chiusura che la trilogia avrebbe meritato, con scazzottate surreali, sordomuti che riacquistano udito e favella, e un happy ending che sembrerebbe appartenere più alla commedia di bassa lega, nonostante tutta la serie di morti ammazzati che i protagonisti e gli antagonisti si lasciano alle spalle per tutta la durata del film.
Nota di colore: partecipazione al film schizofrenica per Glaudo Onorato, che dà il fisico al villain Finch (venendo, per forza di cose, doppiato!) e, come di consueto, la voce a Bud Spencer.
Musiche di Carlo Rustichelli e Riz Ortolani. Molto bello e un po' insolito il motivo jazzato che apre il film e che poi verrà ripreso più volte nel corso della narrazione.

sabato 4 agosto 2012

I quattro dell'Ave Maria

1968, di Giuseppe Colizzi. Con: Eli Wallach, Terence Hill, Bud Spencer, Brock Peters, Kevin McCarthy, Remo Capitani, Bruno Corazzari, , Livio Lorenzon.

Secondo capitolo della trilogia western di Colizzi, I quattro dell'Ave Maria con il suo ritmo scoppiettante ed i suoi dialoghi brillanti è forse addirittura migliore del pur ottimo predecessore Dio perdona... io no! La vicenda riprende là dove si era conclusa con il capitolo precedente (cioè a seguito del duello "esplosivo" con Bill Santantonio), e naturalmente i personaggi impersonati da Bud Spencer e Terence Hill sono i medesimi. Una consequenzialità logica e temporale più unica che rara nel mondo del western italiano dove, per contro, hanno sempre trovato terreno fertile i seguiti apocrifi, incentrati per lo più sul ratto del nome del pistolero più à la page del momento (Django uno dei più brutalizzati, soprattutto all'estero, dove nelle traduzioni avrebbero speso il nome del personaggio di Corbucci anche se il protagonista fosse stato Paperino, purché munito di cappellaccio da cowboy), in virtù del sacro botteghino. La pellicola, come accennato, presenta un incedere narrativo incalzante, grazie all'equilibrato melange di elementi presi a prestito da vari generi o sottogeneri: il revenge movie (la vendetta di Cacopoulos vei confronti dei suoi ex soci), il road movie (il continuo girovagare), l'heist movie (il "colpo" alla sala da gioco), il tortilla western (la trasferta messicana), tenuti insieme da una costante aura avventurosa in chiave picaresca - con qualche inevitabile concessione alla consueto cinico humor da "spaghetti" - a fare da delizioso collante.
E se da un lato continua la cementificazione del duo Spencer-Hill, con l'introduzione (seppur in maniera molto misurata: il film resta comunque uno spaghetti western "classico" a tutti gli effetti, cinico e dal body count non trascurabile) di alcune gag (come quella iniziale della posa fotografica o quella della sfida a cazzotti con il nerboruto boxeur di colore), che diverranno tipiche della coppia in futuro, d'altro canto viene affiancato ai due nascenti astri italiani, un gigante quale Eli Wallach, istrionico e sempre sopra le righe, che ci regala un'interpretazione che non ha (quasi) nulla ad invidiare a quella de Il buono, il brutto, il cattivo (la quale, certamente, prende a modello), che alla fine lo farà emergere come il vero protagonista, il perno centrale della trama. La scheggia impazzita che permette a Bud Spencer e Terence Hill di affiatarsi ulteriormete proseguendo per la loro strada, senza la preoccupazione di doversi sobbarcare completamente il peso della riuscita del film.
La chiusura è tutt'altro che brutta, ma la tipica valenza catartica (e spesso tragica) del duello viene un po' (forse troppo) stemperata dal tono lievemente farsesco e, soprattutto, dal fatto che mancano i morti ammazzati tra i contendenti principali: è un po' come una finale di coppa che termina zero a zero.

giovedì 2 agosto 2012

El desperado

1967, di Franco Rossetti. Con: Andrea Giordana, Rosemary Dexter, Piero Lulli, John Bartha, Franco Giornelli, Aldo Berti, Giovanni Petrucci.


Passato agli onori della cronaca (va beh, proprio agli onori magari no, diciamo che qualche appassionato ne ha sentito parlare) perchè citato da Quentin Tarantino come uno dei suoi spaghetti western preferiti, El desperado non è certo un capo d'opera, ma è un film godibile, che merita di essere riscoperto dagli amanti del genere. L'ennesimo esempio di un prodotto girato con due lire ma dai risultati certamente apprezzabili.
La pellicola rimanda alla visione corbucciana del genere (non a caso Rossetti è stato cosceneggiatore di Django), a partire dalla totale amoralità di quasi tutti i personaggi che si affacciano alla trama, i quali si muovono in un west violento e animato da iene senza scrupoli. Ma anche la città abbandonata, sinistra e quasi spettrale, il fango presente in gran quantità (ed in qualche modo "protagonista" nel corso deil duello conclusivo...) ed il finale con l'antieroe di turno che prende comunque la sua strada, dopo un parziale riscatto, agli occhi dello spettatore, nella parte centrale del film.
Andrea Giordana è davvero efficace nella parte del pistolero "all'italiana", ed è un vero peccato che sia stato utilizzato poco (o male) nel genere (penso a Quella sporca storia nel west di Enzo G. Castellari), perché la faccia, per quanto non eccedesse in espressività, era una di quelle giuste. Non è da meno l'antagonista Franco Giornelli, davvero bravo nelle vesti del villain principale.
Qualche piccola ingenuità (e qualche buchetto...) nella sceneggiatura fa un po' scendere il giudizio complessivo sulla pellicola, che comunque resta in larga parte positivo.
Il commento sonoro di Gianni Ferrio è assoluitamente pregevole.